Sentieri: Il desiderio di Dio?

"L'uomo scelto re per non essere re"
La Parola



Inizia il ritorno alla terra promessa perché quello è il luogo dove deve vivere, lui che è il depositario delle promesse, ma per raggiungere quella terra Giacobbe deve passare attraverso il territorio di Esaù, deve cioè attraversare come uomo, e come uomo rinnovato, il territorio dei rapporti usurati dalla sua vecchia logica del potere.
Esaù si prepara all’incontro e si prepara con quattrocento armati, con una forza che turba e spaventa Giacobbe. E’ una situazione drammatica che dà modo a Giacobbe, e a noi che leggiamo il romanzo, di percepire il cambiamento.

Giacobbe fa tre azioni per lui un tempo sconosciute: si rivolge a Dio riconoscendo tutta la sua pochezza, poi pensa alle mogli e ai figli, cioè non provvede per sé e, infine, apre un canale di comunicazione con il fratello inviandogli dei regali cioè offrendo una possibilità di incontro non più all’insegna dell’arroganza.
Tre le azioni nuove, ma la fondamentale è la quarta: in prima persona e senza fuggire affronta quella che può essere la resa dei conti. Giacobbe ha smesso di scappare da sé, dalla vita, dalla responsabilità. Giacobbe che si è compreso nella dimensione del dono ricevuto è, ormai, colui che sta.

E’ qui che Giacobbe incontra il nemico e il nemico non è Esaù, ma Dio stesso. Dio gli appare e sembra volere frapporsi fra lui e la terra promessa. Colui che nel sogno della scala gli aveva promesso il ritorno sembra ora volerglielo impedire.
Quando Dio sembra ergersi a nemico è il tempo della purificazione, Giacobbe che comprò la primogenitura e le promesse divine, Giacobbe che fuggendo fece l’esperienza del dono come nuova via per dare risposta al desiderio, Giacobbe che nella fatica del lavoro e dell’inganno subito ha maturato in sé il senso e la portata del nuovo rapporto con Dio, Giacobbe che cambiato si trova solo sulla riva del fiume Jabbok nell’attesa del decisivo incontro con il fratello, Giacobbe il depositario delle promesse deve ora decidere: deve dimostrare a Dio (o a sé) che quella terra promessa la vuole veramente, deve dimostrare che il suo desiderio si è fatto libera obbedienza a un Disegno che non gli appartiene se non come dono. Giacobbe deve misurarsi nella lotta con Dio stesso.
Questa lotta e tutto il romanzo di Giacobbe è forse la risposta alla tragedia di Saul.

Giacobbe combatte e lotta perché ciò che gli preme è il contenuto dell’antica promessa cioè la terra, ma lui sa che a quella promessa è legato anche il rapporto con colui che la dona ed è forse questo che ormai desidera con tutte le sue energie e con tutte le sue energie combatte tutta la notte.
In quel combattimento è racchiusa la paura di ciò che domani potrà accadere, è racchiusa tutta la sua debolezza e il dubbio che con gli ultimi colpi di coda si dibattono in lui, in quella lotta è racchiuso il desiderio, ormai fattosi gigante, che è al di sopra di tutto anche della paura di morire.
Giacobbe lotta ed è una lotta d’amore. L’avversario è potentissimo, con un solo tocco azzoppa Giacobbe, ma non sprigiona tutta la sua potenza, sembra voler soccombere, così il combattimento si prolunga e prolungandosi dà modo a Giacobbe di vedere crescere in sé il desiderio di Lui:
Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. 28Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. 29Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. 30Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome”.
Così il combattimento di Giacobbe diviene simbolo di ogni combattimento dell’uomo con Dio dove Dio sa far crescere nel cuore di chi lo cerca l’infinito desiderio di Lui.

Mi viene in mente la pagina finale di un libretto
(Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, edizioni adelphi).
Siamo trasportati nel ghetto di Varsavia dove tutto è segnato dagli incendi delle esplosioni della battaglia con la quale la violenza nazista soffoca la resistenza ebraica, poco prima di morire l’ultimo combattente scrive a Dio e chiude con queste parole il suo manoscritto:

“Il mio rebbe soleva raccontarmi la storia di un ebreo che era sfuggito con la moglie e il figlio all’inquisizione spagnola e, con una piccola barca, sul mare in tempesta, aveva raggiunto un’isoletta rocciosa. Cadde un fulmine e uccise sua moglie. Venne una tempesta e gettò suo figlio in mare. Solo e derelitto, nudo e scalzo, stremato dalle tempeste e atterrito dai tuoni e dai fulmini, con i capelli arruffati e le mani tese a Dio, l’ebreo proseguì il suo cammino sull’isola rocciosa e deserta e si rivolse al suo creatore con queste parole:
“Dio d’Israele, sono fuggito qui per poterti servire indisturbato, per obbedire ai tuoi comandamenti e santificare il Tuo nome. Tu però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà! ». E queste sono anche le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d’ira: Non Ti servirà a nulla! Hai fatto di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un’incrollabile fede in Te.
Sia lodato in eterno il Dio dei morti, il Dio ... della verità e della giustizia, che presto mostrerà di nuovo il suo volto al mondo, e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente.
Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Nella tua mano, Signore, affido il mio spirito.”

Tornando a Giacobbe, il giorno successivo, si incontra con il fratello Esaù e, fattosi, uomo ora e, solo ora, si ritrova potente, ma secondo una dimensione completamente diversa.
Se prima il potere sembrava passare attraverso l’inganno e l’astuzia ora passa attraverso il coraggio di inginocchiarsi nell’atto del perdono e attraverso una frase meravigliosa di Giacobbe.
Una frase che merita attenzione perché è una frase nascosta, non compare nelle traduzioni della bibbia che abbiamo tra le mani.

L’autore
(P. R. Scalabrini, assetati del Dio vivente, in nostalgia e desiderio di Dio, Glossa) dal cui breve saggio ho riassunto queste riflessioni con l’aggiunta della mia personalizzazione, ha saputo attrarre l’attenzione sulla frase di Giacobbe che lui traduce in modo diverso rispetto le traduzioni consuete. Sono andato a verificare e attraverso un testo che traduce il libro della Genesi, parola per parola, ho avuto la conferma della bontà della scelta fatta dall’autore.
Giacobbe dopo essersi inginocchiato davanti al fratello gli offre i doni che Esaù non vuole accettare, allora Giacobbe, secondo la traduzione fatta nelle nostre bibbie, dice: “No, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, accetta dalla mia mano il mio dono,
perché appunto per questo io sono venuto alla tua presenza, come si viene alla presenza di Dio, e tu mi hai gradito.”

Nella traduzione letterale, però, il testo è più suggestivo ed è il seguente: “No, orsù, se orsù trovai grazia in occhi di te, prendi dono di me da mano di me
perché per ciò vidi la faccia di te, come vedere la faccia di Dio e accettasti me.” che nel suo saggio l’autore rende così: “poiché avere visto il tuo volto benevolo è stato come avere visto il volto di Dio” (gen 33,10).

Nel volto del fratello, vedere Dio! Il viaggio di Giacobbe si compie.